Esperimento di pittura cieca con il laser, Alberto D'Amico 1991
Carta fotografica su alluminio
50 × 61 cm
XXXVII Premio Termoli 1992
Foto: Paolo Lafratta
testo di Giovanni Di Stefano

Gli Esperimenti di Pittura Cieca con Laser sono tra i miei lavori quelli che affrontano più radicalmente il paradosso della spontaneità.1


La realizzazione del progetto è affidata spesso ad altri; l‘esecutore deve trovare, lavorando in una stanza buia, un “punto“ su un foglio di carta fotosensibile, con l‘ausilio di un raggio laser e avendo a disposizione un tempo di tre minuti.

L‘esecuzione al buio ricorda la deprivazione visiva utilizzata nei lavori di Pittura Cieca precedenti, dei quali gli esperimenti con il laser sono la continuazione ideale: le modalità di realizzazione dell‘opera mettono infatti l‘esecutore ancora una volta nell‘impossibilità di vedere la registrazione dei propri movimenti. La riduzione dello stimolo ai minimi termini sottolinea l‘intenzione di escludere l‘auto-espressività volontaria (“astinenza espressiva“- Lombardo 1995).2


La luce del raggio laser è sufficiente a individuare i limiti del foglio, dal quale è stato asportato un cerchio del diametro di tre millimetri, ma non permette di cogliere la posizione del foro, che risulterà visibile solo se illuminato direttamente. Le istruzioni a disposizione dell‘esecutore precisano che la collocazione del “punto“ è stata estratta a sorte.
Il tempo a disposizione per l‘esecuzione è al di sotto del tempo necessario a “coprire“ l‘intera superficie del foglio, quindi non esiste una strategia di ricerca che assicura a priori di cogliere l‘obbiettivo. La carta fotografica registra il percorso seguito dall‘esecutore il quale per non esprimersi dovrebbe trovare immediatamente il foro.

Le incertezze e i cambiamenti di direzione diverranno leggibili dopo lo sviluppo fotografico; l‘immagine fino ad allora latente è indizio manifesto dell‘itinerario scelto, traduzione grafica dello stato psichico di chi attua il progetto. Ma leggibili rimarranno anche le persistenze, ovvero gli spazi dove l‘azione procede significativamente più lenta o nei quali si sovrappongono le esplorazioni. A una maggiore persistenza corrisponderà infatti un segno più scuro. L‘immagine che si ottiene è sorprendente e di forte impatto visivo, ma proprio per questo viene spesso guardata esclusivamente come quadro. I segni sono trascrizione di uno stato emotivo; soprattutto perché incontrollati descrivono autenticamente una concezione dello spazio psicologicamente significativa, registrano fedelmente le preferenze e le aspettative dell‘esecutore. Lo spazio del foglio a disposizione evoca una realtà più vasta, e a un‘attenta lettura non solo il percorso, ma l‘intero modo di procedere può rivelarci aspetti importanti della personalità di chi attua l‘esperimento, del suo modo di porsi verso l‘esterno.


Il metodo usato è ideato allo scopo di ottenere un coinvolgimento psichico profondo da parte di chi realizza il progetto, e l‘immagine finale è solo la documentazione di questa esperienza; intendo dire che identifico come opera l‘evento e non l‘oggetto.
In questo senso il tempo limitato di esecuzione e soprattutto l‘impossibilità di leggere il proprio percorso, sono situazioni studiate per garantire l‘autenticità del risultato, per impedire che l‘esecutore abbia piena consapevolezza del proprio agire.
A differenza dei lavori precedenti non vi è contatto fisico con la superficie, quindi l‘esecutore non ha la percezione di coprire, è intento a esplorare e non a produrre.
La possibilità che l‘errore si manifesti è altissima, infatti colpire il bersaglio immediatamente è solo un caso fortunato, qualsiasi altra esecuzione è, più o meno, un allontanamento dall‘ideale implicitamente convenuto.
L‘esecuzione perfetta, trovare subito il foro, si realizza solo accidentalmente e tutte le altre realizzazioni sono deviazioni significative ed esteticamente interessanti.




1 La spontaneità è considerata uno degli aspetti fondamentali della bellezza, ma un comportamento spontaneo è automatico, inconscio, involontario per definizione, quindi unico e non programmabile. Se assumiamo come valore l‘unicità, l‘irriproducibilità dell‘opera unita all‘autenticità dell‘ispirazione, compito dell‘artista sarà creare situazioni che stimolino l‘evento creativo e contemporaneamente escludano la finzione di spontaneità; l‘artificiosità della premeditazione. Bisognerà quindi progettare, paradossalmente, azioni involontarie; o meglio azioni nelle quali la creatività sfugga al controllo cosciente dell‘esecutore, il quale concentrando la sua attenzione nel compito assegnatogli, si esprimerà suo malgrado attraverso la produzione di errori. Rendendo noto a priori l‘obbiettivo che si vuole raggiungere e il metodo adottato si crea la possibilità di una verifica: l‘autenticità e la profondità dell‘ispirazione potranno essere giudicate da chiunque e non dichiarate tali da qualcuno per autorità. Nel mio lavoro chi realizza l‘opera è messo, durante l‘azione, nell‘impossibilità di verificare immediatamente il proprio operato, o di confrontarlo contemporaneamente con il compito assegnato, questo impedisce all‘esecutore di censurare i propri errori. La differenza tra l‘intento e il risultato finale sarà per assioma significativa e personalizzata, inconoscibile a priori, e insieme prevista e verificabile.
A proposito del paradosso della spontaneità si veda il bellissimo articolo di Sergio Lombardo: Sulla spontaneità, in Rivista di Psicologia dell‘Arte, n. 6/7 Edizioni Jartrakor, Roma 1982, e la citazione da Watzlawick in esso contenuta. [Paul Watzlawick, Die Möglichkeit des Andersseins, Verlag Hans Huber, Bern 1977 - Ed. italiana: Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli, Milano 1980].

2 La decisione di ideare lo stimolo utilizzando la forma più semplice o usando metodi di generazione aleatori, deriva da una poetica antiespressionista.
Dal disinteresse per un rapporto nel quale il pubblico si identifica con l‘artista e riceve “passivamente“ il contenuto dell‘opera; l‘attività dello spettatore deve avere un ruolo fondamentale nella realizzazione dell‘evento estetico.