I due tagli 1963
Tecnica mista su tela
90 × 100 cm
VIII Premio Termoli 1963

Nata a Venezia nel 1900, dal 1935 va a vivere a Roma. Tra le sue principali mostre:

1925 Venezia, Ca' Pesaro

1927 Milano, Triennale (parteciperà a tutte le Triennali, fino al '61)

1928 Padova, Mostra Nazionale d'Arte Sacra

1939 New York, Mostra Mondiale

1941 Napoli, Triennale d'Oltremare

1950 Venezia, XXV Biennale

1955 Roma, Quadriennale

1956 Premio Michetti (così nel '57, nel '59, '60, '66)

1958 Roma, Galleria La Salita

1961 Premio Termoli (così nel '62, 64, '65, '69)

1968 Roma, Biennale Romana

1970 Bassano del Grappa, Museo Civico

1970 Fondazione Querini Stampalia di Venezia

1971 Basilea, Art3; Roma, Palazzo Reale

1973 Roma, X Quadriennale

Dal 1978, pur soffrendo di una grave malattia agli occhi, continua a lavorare ed esporre in importanti mostre, presso gallerie private e musei pubblici. Nel 1980 partecipa alla mostra internazionale «L'altra metà della avanguardia (1919-1940)» curata da Lea Vergine a Palazzo Reale, Milano. Muore a Roma nel 1981.

Foto: Gianluca Di Ioia
Il segno «assoluto» di Bice Lazzari
testo di Maria Luisa Caffarelli (si ringrazia l'Archivio Bice Lazzari)

Parlare ancora una volta con Bice Lazzari, se pure per pochi brevi momenti, poco prima dell'apertura di «L'altra metà dell'avanguardia», mi ha permesso di capire come una donna così minuscola, dai grandi occhi ancora vitalissimi dietro due spesse lenti da miope, così riservata nel fare, fosse ricca in realtà di quella forza che solo i timidi sanno sprigionare, ma che nel suo caso sembrava derivare dall'avere sperimentato e da tempo accettato, come artista e come donna, il «mestiere del vivere».

Questo non solo senza rassegnazioni, ma con la grinta e il fervore di chi ha ancora progetti e idee da vendere, e intende prima o poi portarli a termine. La mostra di Lea Vergine, tutti ne erano certi, avrebbe ancora una volta, ma più clamorosamente, posto sotto gli occhi di tutti, date alla mano, la chiaroveggenza di Bice Lazzari. L'indiscusso anticipo con cui era pervenuta negli anni '20 al traguardo dell'astrattismo, trascurata, quando non del tutto ignorata, dalla maggior parte dei critici. É venuta infatti da quella mostra una, per quanto tarda, «santificazione», per un'artista che dai riti ufficiali e pubblici riconoscimenti era rimasta quasi sempre discosta, non cercandoli e, per motivi complessi e diversi nel tempo, non essendo chiamata a farne parte, da chi solo a distanza di anni si sarebbe levato a glorificarne solo la memoria. Bice Lazzari infatti morirà poco dopo, nel novembre del 1981. Segnaliamo fra gli altri «mea culpa», quello autorevole di G.C. Argan, che ponendo Bice Lazzari all'interno di una «mortificante rassegna di omissioni e di ingiustificate oblivioni» la definiva «un'artista che ha speso la vita a distillare la qualità dalla quantità e ad isolare l'essenza pura del segno». E ripercorrendo il lungo cammino della Lazzari vediamo come con il segno abbia intessuto di anno in anno un dialogo ininterrotto, arricchendolo frequentemente di precisazioni teoriche, talvolta in forma di poesia, talvolta invece di brevi annotazioni.

Bice Lazzari, nata a Venezia nel 1900, in quella città studia all'Accademia e al Conservatorio: si avvia in quegli anni un legame mai spezzato con la musica, con le scansioni cadenzate della griglia pentagrammatica, che affioreranno anche molto più tardi, ad esempio negli acrilici degli anni '70, come negazione di armonie, frantumazione di ritmi. Scriveva nel 1926: «La musica ha suoni che aprono mondi senza segni riconoscibili... Anche la pittura ha arresti misteriosi e infiniti mondi da portare a conoscenza». Nel 1926 espone in una collettiva a Ca' Pesaro una serie di acquerelli che non a caso precorrono di alcuni anni le esperienze dell'astrattismo anni '30: «Astrazione di una linea N.1» è in tal senso un'opera fondamentale, in cui l'impalcatura geometrica agisce ormai in funzione dialogante con il colore.

Richiamarsi, come mostrava Bice Lazzari, alle esperienze di Klee, Mondrian, Kandinsky, il Bauhaus, il cubismo e il costruttivismo e di lì a poco scegliere di ritagliarsi uno spazio di autonomia nelle arti applicate – disegni per arredamento e decorazione – voleva dire dare una risposta non condiscendente alla lavata di spugna che lo stato fascista aveva tentato di passare sulle scomode avanguardie del primo '900, opporre all'enfatico, magniloquente realismo di regime di rigore di una scelta formale ed estetica, che era più che mai scelta politica e morale.

Mantenendosi su tale linea di ricerca, nel dopoguerra, non chiamata a far congrega dai gruppi che nebulosamente si muovevano sulla strada dell'astrattismo (Forma, Fronte Nuovo delle Arti), la Lazzari intrattiene con le importanti esperienze che si consumano nel resto d'Europa e Oltreoceano un rapporto di aggiornata indipendenza: il suo lavoro di quegli anni le sottintende senza mostrare di riprodurle. Così, sarà con l'Informale, sentito e interpretato in modo personalissimo e tutto sommato incompreso, non tanto come eruzione e dialogo indeterminato e razionale della materia-colore, ma come terreno per una riappropriazione definitoria attraverso il segno: quadri come «Cammeo» del 1958, «Quadro Verde» del 1959, «Esperienza» dello stesso anno offrono geometrie discontinue, segni che rimandano ad altri segni, concatenazioni e successioni che sono l'incontro mai scontato fra il versante della progettualità più editata e quello della più sfuggente ed eccentrica invenzione. Fino a quel momento il segno si presentava come un residuo, come parte di un tutto divisibile e frammentabile fino alla polverizzazione, oggetto parziale come parziale può essere l'impronta iterata, sempre diversa ed uguale a se stessa, come il seme in grado di fare il vuoto oppure di germinare nuove forme; per quanto sempre distante da ogni facile naturalismo. Con i primi anni '60, in opere come «Canto Largo», o «D/201» del 1962, e sempre più negli anni successivi, il segno, pur non alterando fino in fondo la sua natura, si essenzializza; non è più il segnale, il vestigium, la traccia, ma l'anima e lo specchio di sè, lo stigma che lievita la vita dal suo esserci, in un continuo monologare, inafferabile nelle sue origini e nei suoi fini.

Scriveva Bice Lazzari nel 1965: «Intendo approfondire il significato del segno fino al momento in cui potrà inventare un discorso del suo procedere». Il lavoro intorno al segno condurrà poi ad un suo estremo impoverimento, ad una inarrestabile radicalizzazione, gradualmente consumandosi il segno tornerà, come ai primordi all'arte, ad essere elemento primario ed elementre: l'asta, il tratto di grafite, la riga, il segmento variamente modulato, allontanato, intersecato, ravvicinato, ispessito, fluidificato secondo irripetuti e imprevedibili andamenti, lungo infiniti binari, con un effetto sempre straordinario di luce ed equilibrio, di misura e di rigore. Ripensando a lavori come «Multigrafia e nero», del 1972, oppure «Quadrato bianco e nero» del '73 in cui ad un massimo di staticità, l'azzeramento senza automatismi, quasi del moto stesso della mano, è facile capire come Bice Lazzari abbia avuto nella sua pur lunga vita poche, ma solidamente felici certezze che diremmo «infondate» perchè connaturate alla sua essenza di artista e di poeta; il segno è fra queste ed è stata senza dubbio fra le altre l'unica certezza ad avere «ancora una luce di poesia».