Adji Dieye, Aldo Giannotti ed Elisa Giardina Papa sono le/i tre artiste/i a cui ho chiesto di prender parte alla 64 edizione del Premio Termoli. Un invito che è stato dettato dalla mia ricerca curatoriale ma al contempo motivato da una più ampia riflessione sulla ricca diversità della scena artistica italiana a cui il premio è dedicato. Se i tre lavori scelti raccontano di pratiche artistiche che seguono traiettorie diverse, è possibile rintracciare un atteggiamento comune nei loro percorsi e curricula, che li collocano appieno in un paesaggio artistico internazionale. Mi sono chiesto se un premio con una storia come il Premio Termoli fosse un’occasione per riconoscere non solo una ricerca artistica, mossa dal mio esclusivo punto di vista, ma anche se fosse importante riconoscere la loro ricezione e circolazione, come misura di un interessamento condiviso. Appartengono a due generazioni diverse, sono infatti nati tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90, ma stanno tutti e tre vivendo un periodo di estrema vivacità artistica, siglato da partecipazioni importanti a Biennali o mostre personali in istituzioni internazionali.
Cercando invece un atteggiamento comune nella loro pratica, questo è invece rintracciabile nel modo in cui i linguaggi e i media sono abitati e spinti oltre limiti delle loro definizioni. Iscrivere il lavoro di Adji Dieye alla fotografia, Aldo Giannotti al disegno e Elisa Giardina Papa ai new media, è una riduzione con cui giochiamo, come loro stesse/i fanno, per comodità ma per subito eccederne i confini. Le loro indagini, che introdurrò a breve, vanno di pari passo con una coerente ricerca formale che ha una portata politica ed emancipatoria anche per le modalità con cui interpella i pubblici.
L’opera Chapter 1: May my vision be your present di Adji Dieye porta avanti lo studio che l’artista ha intrapreso nel 2020, con il progetto Culture Lost and Learned by Heart. Gli archivi Iconografici Nazionali del Senegal, costituiti nel 1913 dall'amministrazione coloniale francese, offrono un bacino di immagini e documenti con cui Dieye continua a confrontarsi per indagare il rapporto tra memoria e istituzioni nel paese post-indipendenza. L’archivio e la fotografia non sono accettati come portatrici di una storia / verità lineare ma riconosciute per la loro natura labirintica e strumentalizzabile. Le immagini trovate e selezionate dall’artista sono ristampate a mano, in un processo performativo che incarna anche quel mal d’archivio (Derrida) che Dieye dichiara come punto di partenza. C’è un rifiuto a seguire la narrazione dell’artista che “svela” o “riscrive” storie, quanto il tentativo di incarnare e render pubbliche una serie di domande sui materiali incontrati. La scultura è un incontro tra una rotativa tipografica e uno skyline urbano che raccontano la trasformazione e la sovrapponibilità dell’architettura con la macchina dell’informazione. Una precisa strategia per rendere manifesto un processo di studio di materiali, a cui l’artista riesce a dar forma in un regime che opera tra visibilità e opacità, tra intimo e pubblico, e che lascia i visitatori su queste soglie.
This Is Where We Draw The Line di Aldo Giannotti, è un’opera che scaturisce, o forse ha dato vita, a una performance fino ad oggi presentata sia in circuiti di danza contemporanea che in istituzioni museali – a prova della sua “circolarità” e mobilità tra confini disciplinari. Come spesso accade nel lavoro dell’artista, il titolo evoca e mette in moto nello spettatore / lettore, immagini che invitano a prender atto di quelle che Giannotti ha definito “disposizioni spaziali” dell’istituzione, e che necessariamente agiscono su percezione e comportamenti di chi le vive. Giannotti si muove lungo i bordi di queste disposizioni, rende tangibili e giocabili le norme, implicite o visibili che siano.
In This Is Where We Draw The Line l’artista, i performers, la guardia del museo, i pubblici, sono i soggetti/oggetti chiamati in causa dal titolo per riconfigurare alcune stringhe elastiche tese tra chiodi: linee nere spesse che accennano all’architettura dell’istituzione in cui è presentata: disegni ricombinabili o sculture mobili/tattili che permettono di performare con essa e con i limiti/ruoli che sono stati istituzionalmente assegnati. Intraducibile nelle sue molteplici sfaccettature, il titolo dell’opera comunica al contempo regola e resistenza, limite e confine da oltrepassare, dove i “noi”, chiunque essi siano, sono svuotati dalle gerarchie e relazioni di potere, per far emergere le contraddizioni del rapporto tra le istituzioni e le collettività che le abitano.
L’installazione/assemblaggio Flock – She Preferred the Lineage of Goats and Ducks, di Elisa Giardina Papa è l’ulteriore materializzazione di un lavoro che continua ad indagare pratiche, mitologie e tradizioni orali siciliane e mediterranee. Una video-scultura ed una costellazione di ceramiche riuniscono soggettività solitamente associabili ai domini del femminile e del naturale; ma partendo da questa congregazione di istanze storicamente “diagnosticate”, tassonomizzate e perseguitate, Elisa Giardina Papa costruisce la sua posizione che scompiglia il loro possibile addomesticamento. Trecce di capelli fuoriescono da uno schermo dove zampe animali sono riprese mentre si muovono seguendo un ritmo silenzioso; le stesse zampe si incontrano nello spazio espositivo e forse chiedono di essere indossate per prender parte alla danza; poco vicino alcuni limoni mentre ammuffiscono: la storia delle “donne di fora”, guaritrici siciliane, è intrecciata con la materializzazione di saperi e tecniche artigiane tradizionali. Un ambiente in fermento. Scultura e video sono attraversati da una performatività che Elisa Giardini Papa usa per “disordinare” i dualismi e le separazioni che una certa museologia e scienza ha imposto. Invita ad avvicinarsi a questi saperi e storie, non per mezzo di un linguaggio lineare, vocalizzato o portatore di verità, ma attraverso un appello alla ritualità che da corpo a processi in divenire come solo la danza – irrazionale – è in grado di fare.