Ricercare e raccontare il mondo in cui viviamo
di Gioia Dal Molin

Il corpo, e in particolare il corpo femminile e Nero, è centrale nelle opere di Binta Diaw, un’artista italo-senegalese che sviluppa video, installazioni, fotografie e opere tessili. Il processo artistico parte anche dalla sua esperienza di donna Nera nell'Italia contemporanea e si apre a un'ampia riflessione sull'impatto capitalista, patriarcale e coloniale sul corpo. Il corpo come portatore di ricordi, ma anche di traumi intergenerazionali e si interroga sul legame tra il corpo e dei paesaggi specifici.

La pratica di Binta Diaw si nutre della teoria femminista intersezionale e dei Black Studies, che si occupano delle storie e delle esperienze della diaspora africana. Binta Diaw appartiene a una giovane generazione di artiste e artisti italiane/i afrodiscendenti che reclamano visibilità. Nei suoi lavori più recenti predilige l'installazione – come per Dïà s p o r a, un lavoro fatto di trecce di capelli sintetici in cui si celano chicchi di riso (in riferimento a una pratica di resistenza delle donne Nere nell’ atroce tratta transatlantica degli schiavi) – e tematizza il corpo come luogo di memoria, resistenza e di ricettacolo di pratiche sociali collettive.

Il lavoro fotografico Essere Corpo Still del 2016, esposto al MACTE nel 64 Premio Termoli, mette in scena il corpo ed è, a mio avviso, un punto di partenza concettuale per lo sviluppo della pratica di Binta Diaw negli ultimi anni. Essere Corpo Still è una riflessione sul legame tra corpo e topografia: «Le nostre origini sono inscritte in noi, così come la terra è inscritta in noi», dice l’artista. L’opera in mostra è una riconquista del corpo femminile e Nero e raffigura un confronto con le sue capacità sensoriali (annusare, sentire, tastare la terra). Essere Corpo Still parla del potenziale di resistenza del corpo – anche in risposta all'identificazione del corpo femminile e Nero con la “natura” e alle rappresentazioni che ne derivano dando forma a una violenza razzista, patriarcale e coloniale.

Essere Corpo Still affronta il tema delle connessioni tra corpo e identità, che si condizionano e si formano a vicenda. E in questo senso, Essere Corpo Still è anche una riflessione sul legame tra esperienze soggettive e identità collettiva nel contesto della diaspora e della migrazione. Essere Corpo Still come riappropriazione di narrazioni e storie - nella lunga tradizione di resistenza (ad esempio delle donne Nere) e come promessa a una generazione futura.

Jiajia Zhang lavora con la fotografia e il video e sviluppa anche installazioni scultoree. Per i suoi lavori video utilizza sia riprese fatte da lei nelle città dove ha vissuto, come Roma e Milano, sia materiale trovato su YouTube, TikTok, telegiornali o programmi televisivi. A volte attinge anche dal proprio archivio di famiglia. Le interessano le sovrapposizioni di spazi e sfere di significato che si incontrano nel mondo digitale, mentre scorriamo Instagram o guardiamo video su YouTube. Quando si mescola la sfera intima di video personali, le clip con i gatti o le riproduzioni confezionate della vita di un influencer, e uno spazio pubblico di immagini di guerra, crisi climatiche, proteste e manifestazioni.

Il video Between the Acts (2022), presentato in mostra per il Premio Termoli, gioca proprio con queste tensioni, con questo rapido passaggio da una realtà all'altra. Ed è una sorta di ritratto della nostra esistenza in un mondo digitalizzato, globalizzato, tardo-capitalista e consumistico. Con sequenze più lunghe e più brevi e tagli vari, Jiajia Zhang crea un panorama complessivo: “Breaking News” di servizi telegiornalistici sul movimento Black Lives Matters, sovrapposto con una musica da marcia; sequenze di immagini silenziose di oggetti incandescenti nel cielo notturno e la voce di un bambino che cerca di raccontare un sogno (“Did you ever have a dream in which you can do anything?”). Lunghi movimenti della telecamera attraverso spazi vuoti e una voce che riflette sul significato della vita, riprese subacquee di meduse e considerazioni sul sistema imperialista mondiale. Un'alternanza di immagini, temi, stati d'animo ed emozioni.

Il titolo dell'opera è un riferimento all'ultimo romanzo di Virginia Woolf, pubblicato nel 1941, solo dopo la sua morte. L'autrice inglese riflette sul periodo tra le due guerre mondiali e sulla vita personale e intima, che è sempre parte di un contesto politico, di un presente collettivo, di una storia. E credo che il lavoro di Jiajia Zhang adatti queste riflessioni al nostro presente creando un saggio poetico nel formato di un video.

Il lavoro mi tocca sempre molto profondamente: nella primavera del 2025 ci ritroviamo in un ordine mondiale rovesciato: tra dittature, tecno-capitalismo e colonialismi di insediamento sfrenati. In qualche modo dobbiamo orientarci, ribellarci e resistere e allo stesso tempo continuare a sognare un futuro, da qualche parte là fuori, “among the stars”.

L'opera Figuration Demon (deer) di Monia Ben Hamouda agisce su più livelli sensoriali. Le spezie utilizzate - curcuma, peperoncino, cannella e cumino - mi pizzicano il naso e, se non sto attenta, lasciano tracce gialle o rosse sulla mia pelle. In molte culture hanno un significato importante come sostanze curative, spirituali o rituali. Monia Ben Hamouda le utilizza come pigmenti colorati per le sue sculture in acciaio e ricava sul pavimento delle decorazioni che sembrano dei dipinti. Le forme tagliate al laser della scultura in acciaio sospesa mettono alla prova la mia percezione visiva, spesso limitata dal canone occidentale applicato alla storia dell'arte. Ricordano pennellate precise e fungono da disegni nello spazio sia astratti, che figurativi. Vedo infatti delle ali, una faccia animalesca, quasi mostruosa, zampe, forse una mano.

Monia Ben Hamouda è cresciuta a Milano da madre italiana e padre tunisino, tra due lingue, due religioni e due mondi e tradizioni (visuali e artistiche). Da alcuni anni si confronta con questo patrimonio: le sue opere scultoree contengono riferimenti all'aniconismo dell'Islam, cioè un modo di creare che non prevede la rappresentazione di esseri viventi e figure religiose, di cui si nutre la tradizione della calligrafia araba, praticata dal padre dell’artista. La scrittura, spesso tratta dal Corano, diventa un'immagine ornamentale. Il divieto di raffigurazione risale alla distruzione delle immagini idolatre della Kaaba alla Mecca da parte del profeta Mohammed. Secondo la tradizione islamica, un demone sarebbe fuggito da una delle statue distrutte.

Nell’opera di Monia Ben Hamouda, il demone si muove rapidamente tra le linee filigranate in acciaio, che forse ricordano i frammenti delle sculture distrutte. L'artista sviluppa un linguaggio visivo del tutto personale e riflette sul potenziale narrativo e rappresentativo dell'arte, sulla lotta per il linguaggio in un mondo crudele, ma anche sull'enorme importanza delle pratiche curative e di sostegno (la curcuma, ad esempio, ha un effetto antinfiammatorio ed è usata come medicinale), soprattutto in questo momento.